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Regole ‘assurde’ ostacolano l’accesso all’aborto durante COVID-19

Proprio mentre le infezioni da coronavirus si espandono nel nord Italia, Lisa* si rende conto di essere incinta. Quasi cinquantenne, con due bambini, un lavoro precario e problemi di salute: “Purtroppo mi sono accorta di essere incinta inaspettatamente, soprattutto alla mia età”.

Lisa decide di ricorrere all’aborto, pratica che in Italia è legale da quando lei era bambina, ma che ancora oggi rimane difficilmente accessibile persino in tempi “normali”. Molti medici si rifiutano di prestare il servizio e, al contrario di altre nazioni europee, gli aborti farmacologici sono disponibili solo in ospedale, e solo fino alla settima settimana di gravidanza.

L’esperienza di Lisa dello scorso febbraio, descritta in una dettagliata lettera mandata a LAIGA (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78) e condivisa con openDemocracy, era un segnale di ciò che si prospettava per le donne a livello nazionale.

La gravidanza di Lisa, essendo nelle prime settimane, si sarebbe potuta terminare con un paio di pillole. Ma in quei giorni, prima che iniziassero le misure restrittive in tutta Italia, molti comuni dell’area di Lodi, la sua città, erano già stati messi in isolamento. Secondo un gruppo di attiviste per diritti delle donne, l’ospedale aveva già preso misure drastiche: aveva sospeso gli aborti farmacologici e convertito in chirurgici quelli già programmati.

Lisa si trovava quindi davanti due opzioni: proseguire una gravidanza indesiderata o iniziare un’odissea nel tentativo di trovare un altro ospedale in cui l’accesso ai servizi fosse ancora garantito. La donna sceglie la seconda strada, e inizia a chiamare altri ospedali nella sua regione, ma viene respinta sia da quelli in aree con un numero di casi maggiore, a causa dell’emergenza, sia da strutture in zone con tassi di infezione minori, per via della sua provenienza da Lodi.

È solo dopo giorni di chiamate e rifiuti che Lisa trova finalmente un ospedale pronto ad accettarla. Da quel momento, attiviste per i diritti delle donne hanno denunciato che diversi ospedali in tutto il paese hanno sospeso gli aborti farmacologici. Altre strutture sono state trasformate nei cosiddetti ‘ospedali COVID’ e hanno sospeso tutti gli altri interventi chirurgici, inclusi i servizi di interruzione volontaria di gravidanza (IVG).

Il gruppo ultra-conservatore ProVita e Famiglia ha cavalcato l’onda per lanciare una petizione online, chiedendo di bloccare tutti i servizi IVG a livello nazionale dichiarando: “Durante la pandemia, l’aborto non è un servizio essenziale”.

Regolamenti “assurdi”

Anna Pompili, ginecologa e co-fondatrice di AMICA, un gruppo di medici pro-choice, ha dichiarato a openDemocracy a febbraio che “l’attuale emergenza sta riducendo le possibilità di abortire in particolare nel nord Italia.”

Da allora, ginecologi in altre regioni hanno notato tendenze simili. Dall’Umbria Marina Toschi, ginecologa dell’Associazione AGITE (Associazione Ginecologi Territoriali) ha spiegato a openDemocracy che gli aborti farmacologici sono stati sospesi in numerosi strutture “per evitare molteplici accessi all’ospedale”.

Un problema chiave, sostengono attivisti ed esperti, sono le linee di indirizzo sull’IVG previste dal Ministero della Salute, che richiedono che le pillole abortive siano somministrate in ospedale. Solo in una minoranza di strutture questa procedura può avvenire in day hospital, che comporta comunque un minimo di tre visite.

Toschi ha criticato questi regolamenti, definendoli un “protocollo inventato e assurdo” e ha detto che l’attuale emergenza ha amplificato ostacoli già da tempo esistenti nell’accedere all’aborto farmacologico.

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